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La nuova frontiera della rappresentanza sindacale: la Corte costituzionale riscrive l'art. 19 dello Statuto dei lavoratori

Commento alla sentenza n. 156/2025 della Corte Costituzionale 

La sentenza n. 156 del 2025 della Corte costituzionale rappresenta un punto di svolta nel sistema italiano della rappresentanza sindacale, perché riformula il significato dell'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori e sposta definitivamente l'asse della legittimazione sindacale dalla disponibilità negoziale del datore di lavoro al principio della rappresentatività effettiva. L'interrogativo che accompagna questa sentenza è infatti lo stesso che attraversa gli ultimi trent'anni della giurisprudenza costituzionale: chi decide quali sindacati possono esercitare i diritti garantiti dalla legge nei luoghi di lavoro? La parte datoriale, attraverso la selezione degli interlocutori, o l'ordinamento, attraverso criteri oggettivi e non negoziali?

Il testo originario del 1970 prevedeva due criteri di accesso alle RSA: l'adesione a una grande confederazione e la firma del contratto collettivo applicato in azienda. Il referendum del 1995 eliminò il primo criterio, lasciando in vigore solo quello legato alla firma del contratto: da quel momento, solo chi sottoscriveva l'accordo aveva titolo per costituire la rappresentanza aziendale, con la conseguenza implicita che il datore di lavoro, scegliendo con chi negoziare, decideva anche chi sarebbe stato titolare dei diritti sindacali previsti da legge. Una maggiore efficienza del sistema sembrò giustificare questa semplificazione, ma la Corte costituzionale, già nel 2013 con la sentenza n. 231, rilevò un primo squilibrio: non si poteva ridurre la rappresentanza alla firma, perché ciò avrebbe escluso i sindacati che, pur avendo partecipato attivamente alla trattativa, sceglievano di non firmare l'accordo.

La sentenza del 2025 completa il percorso avviato nel 2013. La Corte non si limita a tutelare chi ha partecipato alla negoziazione: interviene a favore dei sindacati che, pur rappresentativi tra i lavoratori, non sono stati ammessi neppure al tavolo contrattuale, e che quindi rimangono esclusi dai diritti sindacali previsti dall'articolo 19. La Corte giudica incostituzionale questa esclusione, perché trasforma la libertà sindacale in un diritto condizionato dalla volontà dell'impresa, ribaltando la logica dell'articolo 39 della Costituzione. Da qui la scelta di introdurre un terzo criterio accanto alla firma e alla partecipazione alla trattativa: la rappresentatività comparativa su base nazionale, già utilizzata dal legislatore in altri settori per individuare i soggetti abilitati alla stipula di contratti con efficacia generale. In questo modo, l'accesso ai diritti sindacali non dipenderà più esclusivamente dal rapporto negoziale con il datore di lavoro, ma da un parametro che riflette la consistenza reale del sindacato nell'ordinamento complessivo.

Il merito principale della sentenza sta nel fatto che non trasforma il sistema in un modello aperto a tutti, ma elimina la dipendenza strutturale della rappresentanza dalle scelte dell'impresa. La Corte non afferma che ogni sindacato ha diritto a costituire la RSA, ma che questo diritto non può essere negato a un sindacato rappresentativo solo perché non gradito al datore di lavoro. La tutela resta selettiva, ma viene resa costituzionalmente corretta.

Accanto ai punti di forza, la decisione apre però una serie di questioni (criticità) che ora spettano al legislatore. La prima riguarda la misurazione della rappresentatività: come stabilire quali sindacati sono "comparativamente più rappresentativi"? Con quali soglie? Con quali dati? Nel settore pubblico esiste un sistema di certificazione basato su voti RSU e dati associativi; nel settore privato, una normativa organica manca. Finché questa lacuna non sarà colmata, il rischio è che il criterio introdotto dalla Corte venga applicato caso per caso, con decisioni giudiziali non uniformi o con affidamento a criteri pattizi che non hanno forza di legge. L'introduzione del principio, dunque, non basta: serve una legge sulla rappresentatività sindacale, più volte attesa e mai varata.

La seconda questione riguarda il rapporto tra RSA e RSU. Le RSA, ora ancorate anche a un criterio nazionale, e le RSU, basate su un'elezione interna aziendale, non saranno necessariamente coincidenti. Si apre quindi un interrogativo sul coordinamento tra rappresentanza elettiva e rappresentanza accreditata su scala nazionale, un tema destinato a creare tensioni se non regolato chiaramente.

Terzo punto aperto: la gestione del pluralismo. L'ampliamento dei soggetti titolati non genera automaticamente caos, ma richiede regole precise per evitare frammentazione del potere contrattuale, moltiplicazione delle RSA, o conflitti di titolarità. Senza un intervento legislativo, il sistema rischia di oscillare tra l'eccesso opposto all'attuale: dall'esclusione selettiva alla proliferazione non governata.

È importante sottolineare, però, che la Corte non ha preteso di risolvere questi nodi: ha indicato il limite costituzionale del modello vigente, senza sostituirsi al legislatore. Non ha scritto la legge mancante: ha rimosso l'ostacolo che impediva al legislatore di scriverla. È una sentenza di riequilibrio, non di riforma compiuta: mantiene in vita il sistema, ma ne corregge l'asimmetria originaria.

A distanza di cinquant'anni dalla nascita dello Statuto dei lavoratori, il tema della rappresentanza sindacale non è più una questione interna alla contrattazione collettiva, ma uno snodo costituzionale. Con questa sentenza, la Corte chiarisce che l'agibilità sindacale non può essere una concessione del datore di lavoro, ma una garanzia derivante dal grado di effettiva rappresentanza del soggetto collettivo. Da qui in avanti, la questione non è più se il legislatore debba intervenire, ma quando e con quale modello.

In sintesi: la Corte ha restituito coerenza ai principi, ora spetta alla politica restituire coerenza alle regole.




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